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Lavoro autonomo o subordinato? La Corte salva l’impresa

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28/11/2024

 L’Inps ha notificato all'azienda un avviso di addebito per il pagamento di contributi previdenziali e somme aggiuntive, a titolo di sanzione, per dei rapporti di collaborazione intrattenuti con due biologhe. L'avviso di addebito si fondava su un verbale redatto dai funzionari dell'Ispettorato del lavoro che avevano qualificato le due collaborazioni come rapporto di lavoro subordinato e non autonomo-professionale. Il Tribunale, senza svolgere attività istruttoria, ha respinto il ricorso dell'azienda. Il Tribunale ha ritenuto sussistente il rapporto di lavoro subordinato perché le due biologhe "risultavano inserite nel ciclo produttivo della società, i contratti di collaborazione autonoma indicavano la durata di inizio e di fine contratto, generalmente annuale; vi era l’obbligo di svolgere la prestazione nell’arco di tempo dalle 8.00 alle 18.00, per sei giorni alla settimana. La subordinazione poteva ricavarsi anche dall’analisi delle fatture generiche recanti l’indicazione del mese e sempre del medesimo importo, nonché dal fatto che le lavoratrici – come riferito dalle medesime- dovevano comunicare le assenze dal lavoro ed erano impiegate unicamente dalla società ricorrente.".

L'azienda ha proposto ricorso in appello, sostenendo l'erroneità della decisione del Tribunale, perché quel giudice avrebbe dovuto prendere in considerazione la volontà contrattuale delle parti al momento dell’instaurazione del rapporto e quindi valutare le modalità di svolgimento delle prestazioni e la sussistenza della direzione e la soggezione al potere gerarchico e disciplinare. Avrebbe, poi, dovuto soffermarsi sui presupposti del rapporto di lavoro autonomo, ossia la collaborazione, il rischio, l’oggetto della prestazione. Le due biologhe negli anni non hanno reso una collaborazione riconducibile all'etero direzione, perché è sempre mancato il loro assoggettamento agli ordini puntuali e specifici del datore di lavoro.

La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica del rapporto di collaborazione delle due biologhe, ha innanzitutto affermato che era onere dell’Inps dare la prova della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato. Non è sufficiente il solo verbale ispettivo che costituisce, infatti, prova "unicamente con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale nella relazione ispettiva come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonché con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata di detti accertamenti non è, per converso, estesa agli apprezzamenti in essi contenuti, né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche. Ne consegue che le valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente ".

Esaminando nel merito la controversia, la Corte di Appello di Milano ha accolto l'impugnazione della sentenza perché il verbale di accertamento, così come i documenti ad esso allegati, "non provano l’effettiva natura subordinata del rapporto di lavoro: si tratta di contratti di collaborazione autonoma prestata da professionisti iscritti obbligatoriamente ad un albo ed all’ente previdenziale relativo. Non costituiscono elementi decisivi né la durata predeterminata del contratto né la previsione di un compenso forfettario; inoltre, i contratti non prevedono un orario di lavoro, ma soltanto che la prestazione debba essere resa entro una fascia oraria predefinita che è quella dell’apertura del laboratorio di analisi. Risulta peraltro che il monte ore annuale indicativo (960 ore) previsto dai contratti e sulla base del quale è determinato il compenso, non è compatibile con un orario lavorativo pieno ma tutt’al più con un orario di 3-4 ore al giorno. Né risulta dirimente la circostanza che la prestazione dovesse essere svolta nei locali e con le attrezzature della società, data anche la peculiarità della prestazione. Si tratta di elementi non decisivi, dovendo invece indagarsi in merito alla c.d. eterodirezione, il tutto secondo la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità."

Con queste considerazioni, la Corte di Appello di Milano, per poter decidere la controversia, ha ritenuto doveroso sentire sui fatti specifici della prestazione lavorativa resa dai collaboratori biologi, i testimoni che, però, a suo dire, non hanno reso dichiarazioni univoche. In ogni caso dalle dichiarazioni testimoniali è emerso per la Corte di Appello "in modo certo che le due biologhe non erano tenute ad osservare un orario di lavoro fisso, tanto che esse potevano anche assentarsi durante la mattinata (in particolare una delle due biologhe svolgeva contemporaneamente un’altra collaborazione nel medesimo edificio). Né vi era un controllo vero e proprio sul lavoro delle medesime, le quali agivano in totale autonomia per realizzare lo scopo dell’attività ovvero l’esecuzione delle analisi di laboratorio; mancavano quindi disposizioni specifiche e quanto alle assenze dal lavoro non è emerso che vi fosse un obbligo di giustificazione, così come non sussisteva un obbligo di chiedere le ferie ed i permessi, poiché le due potevano organizzarsi fra di loro. Il coordinamento fra le varie risorse e l’inserimento nella struttura sono del tutto compatibili con un rapporto di tipo professionale convenzionato, secondo uno schema del tutto comune nelle professioni sanitarie."

L'Appello dell'azienda, con la domanda di annullamento del verbale di accertamento, è così stato accolto perché, per la Corte di Appello milanese, "In definitiva, non è stata adeguatamente provata la sussistenza di rapporti di lavoro di natura subordinata fra l'azienda e le due biologhe, con il che viene meno il presupposto dell’imposizione contributiva contenuta nell’avviso di addebito impugnato".

Era onere dell'Inps dare la prova della subordinazione che, però, non è stata fornita.

Corte di Appello di Milano sezione lavoro sentenza n.1112 pubblicata il 31 gennaio 2024. Presidente Ravazzoni.

 

 

 

 

 

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
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La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.