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Discriminazione indiretta se ad essere licenziato è un lavoratore disabile, lo dice la Cassazione

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01/05/2023

Un collaboratore subordinato dell’Amsa milanese è stato licenziato per essere stato assente per malattia per 375 giorni nell'arco dei 3 anni precedenti il suo nuovo ulteriore periodo morboso. Il licenziamento è stato intimato nel rigoroso rispetto delle previsioni del contratto collettivo del settore che disciplina il rapporto.

Il lavoratore ha impugnato licenziamento; il tribunale ha accolto la sua domanda ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro perché ha ritenuto sussistente una discriminazione diretta correlata alle condizioni di disabilità del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap con capacità lavorativa ridotta del 75% ed inidoneo allo svolgimento di diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari interni espletati dall'azienda. Il tribunale di Milano ha ritenuto sussistente la discriminazione perché il lavoratore era stato licenziato a ragione della sua malattia riconducibile alle condizioni di disabilità che gli impedivano di svolgere le mansioni a causa delle sue limitazioni.

La Corte di Appello di Milano, davanti alla quale l'azienda ha impugnato la sentenza, ha confermato la decisione del tribunale sulla nullità del licenziamento ma ha cambiato la motivazione: il licenziamento non era nullo per discriminazione diretta, che ha ritenuto insussistente, ma per discriminazione indiretta. Gli effetti della nullità del licenziamento, però, sono rimasti gli stessi.

La Corte di Appello ha configurato la discriminazione indiretta nel fatto che l'azienda, omettendo di considerare il grave quadro patologico del lavoratore, lo aveva licenziato per superamento del periodo di comporto applicando la normativa collettiva del settore, "trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE del 18/1/2018".

La discriminazione indiretta per legge ricorre "quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone ".

L'azienda ha proposto ricorso in Cassazione; la Corte suprema ha confermato la sentenza.

Per la Suprema Corte la tutela contro le discriminazioni che hanno origine dalle condizioni di disabilità trova fondamento nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e nella convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.

Queste norme stabiliscono "un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione."

Un lavoratore disabile rispetto ad un lavoratore non disabile è esposto ad u rischio ulteriore di malattia collegato al suo handicap, con la possibilità di accumulare maggiori giorni di assenza per malattia utili per il successivo licenziamento per superamento del periodo di comporto. Trattando le assenze per malattia del lavoratore disabile e del lavoratore non disabile nello stesso modo si ha la conseguenza di svantaggiare il lavoratore disabile con una disparità di trattamento indirettamente basata sul suo handicap.

Per la Cassazione "il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione”.

Per la Cassazione "Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.

Non si pone, quindi, una questione di mancato bilanciamento con la finalità di contrasto dell'eccessiva morbilità dannosa per le imprese: nella misura in cui la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva.

La necessaria considerazione dell'interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, invece, l'applicazione del principio dell'individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall'art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE), secondo una prospettiva che non risulta percorsa in concreto nel caso in esame." Cassazione civile sez. lav., 31/03/2023, (ud. 31/01/2023, dep. 31/03/2023), n.9095

Nel panorama della nostra contrattazione collettiva non vi è un solo contratto che preveda un periodo di comporto differenziato per il lavoratore affetto da handicap e il lavoratore privo di questo svantaggio.

Le parti collettive, come auspica la stessa Corte di Cassazione, prendendo atto del contenuto della sentenza e del quadro normativo esistente a livello internazionale ed europeo devono con immediatezza colmare questo vuoto prevedendo in modo esplicito una tutela maggiore per il lavoratore handicappato rispetto a chi non lo è dando così certezza alle aziende sulla corretta disciplina da applicare.

L'attuale vuoto normativo della contrattazione collettiva sicuramente rappresenta una fonte di danno per l'azienda perché crea grave incertezza e confusione dovendo interpretare la certificazione medica senza avere dei parametri sicuri di valutazione. Nell'attuale assetto normativo, prima di licenziare un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, occorre ponderare molto bene questa soluzione perché qualsiasi scelta rischia di apparire arbitraria ed essere foriera di guai giudiziari.

 Milano 20 aprile 2023

Biagio Cartillone

 

 

 

 

 

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.