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La corte costituzionale censura il Parlamento e il governo del 2014 e dichiara l'illegittimità costituzionale della norma sulla condanna al pagamento delle spese processuali

Corte costituzionale, sentenza numero 77 resa pubblica il 19 aprile 2018

Il tribunale di Torino e il tribunale di Reggio Emilia, quali giudice del lavoro, hanno sollevato la questione della legittimità costituzionale dell'articolo 92 del codice di procedura civile che, dopo la riforma del 2014 imponeva al giudice di condannare al pagamento delle spese processuali la parte soccombente. La condanna al pagamento delle spese era obbligatoria perché quel giudice poteva compensare le spese solo nel caso in cui vi fosse stata una novità assoluta della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza. Questa norma mortificava il potere discrezionale del giudice che  di fatto veniva annullato. La norma dà subito ha presentato dubbi di costituzionalità anche perché nella pratica quotidiana si è rivelata un formidabile mezzo di ingiusta e malevola compressione contro il soggetto più debole del rapporto processuale. Nel 2014, il governo e il Parlamento, hanno imposto quella modificazione perché avevano l'obiettivo di scoraggiare il  ricorso ai giudici, facendo così diminuire il contenzioso e coprire la loro incapacità di ricercare soluzioni organizzative efficienti e alternative. Ultimamente la  corte di appello di Milano, sezione lavoro, rigettando il ricorso dei lavoratori, li condannava al pagamento delle spese processuali che, in una causa di valore medio, poteva assestarsi, con i vari accessori, sui 5.000/ 6000 euro e anche oltre. Anche la corte di cassazione si è assestata su valori simili. E' accaduto che vi siano stati lavoratori che per spese processuali liquidate a favore del loro datore di lavoro, abbiano dovuto consumare  la loro intera liquidazione, con la circostanza non indifferente che  per le imprese le spese processuali sono dei costi che si scaricano fiscalmente mentre il lavoratore deve sopportarli per intero, senza usufruire di benefici fiscali.  La corte di cassazione ha interpretato la norma del 2014 in modo estremamente rigoroso e sfavorevole per la parte perdente. La Corte Costituzionale, con questa sentenza, ha messo in qualche modo in riga quel legislatore del 2014 che non ha saputo applicare con  il dovuto rigore le norme della Costituzione. La Corte costituzionale ha ristabilito un certo equilibrio processuale affermando che "la rigidità" della nuova previsione dell'articolo 92, viola il "principio di ragionevolezza e di eguaglianza" perché "ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa". La nuova norma, nella  sua rigidità, viola, inoltre, il canone del giusto processo e il diritto alla tutela giurisdizionale "perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista e imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti". Per la Corte costituzionale, "La circostanza che il lavoratore per la tutela dei suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e  decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenziosa controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle "gravi ed eccezionali ragioni" che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite". La Corte costituzionale ha concluso affermando l'illegittimità costituzionale dell'articolo 92 secondo comma del codice di procedura civile "nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni". La corte costituzionale, sentenza numero 77, resa pubblica il 19 aprile 2018. Vi offriamo in lettura l'intera sentenza della Corte Costituzionale.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.