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DIRITTO DI FAMIGLIA:RICONOSCIMENTO GIUDIZIALE DELLA PATERNITA' O MATERNITA' NATURALE

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08/01/2014




La Corte Costituzionale con sentenza n. 56 del 10 febbraio 2006, ha dichiarato l'illegittimità della normativa del codice civile che all'articolo 274 prevedeva la preliminare delibazione di ammissibilità dell'azione della dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale promossa da un soggetto maggiorenne.
Per la sua profondità di analisi e per il suo interesse giuridico si riporta la sentenza della Corte Costituzionale nella parte centrale e più significativa della sua motivazione. 
"Il codice civile del 1942 - come risulta dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo - allo scopo di scoraggiare iniziative con finalità solo ricattatorie, introdusse, con l'art. 274 cod. civ., la previsione di un preventivo giudizio di delibazione in ordine all'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, nel corso del quale, con indagine sommaria e segreta, si potesse valutare l'esistenza, o meno, di indizi tali da far apparire giustificata detta azione. Tale giudizio doveva svolgersi in camera di consiglio; l'inchiesta sommaria doveva avere luogo senza alcuna pubblicità, ed essere mantenuta segreta, e il decreto con cui si dichiarava ammissibile o inammissibile l'azione non era reclamabile. Successivamente, questa Corte dichiarò la illegittimità costituzionale dell'art. 274, secondo comma, cod. civ. nella parte in cui disponeva che la decisione avesse luogo con decreto non motivato e non soggetto a reclamo, nonché per la parte in cui escludeva la necessità del contraddittorio e dell'assistenza dei difensori, per violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost., relativo al diritto inviolabile della difesa, nonché, sempre in riferimento allo stesso principio, la illegittimità costituzionale del terzo comma dell'art. 274, per la parte in cui disponeva la segretezza dell'inchiesta anche nei confronti delle parti (sentenza n. 70 del 1965).
Con la stessa pronuncia la Corte, con riguardo all'art. 30 Cost., rilevò testualmente: «è chiaro che la ricerca della paternità viene così considerata come una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio, e, come tale, è fatta oggetto di garanzia costituzionale» ed aggiunse: «la stessa norma costituzionale, però, stabilisce che la legge ordinaria pone i limiti per la detta ricerca: limiti che potranno derivare dalla esigenza, affermata nel comma 3, di far sì che la tutela dei figli nati fuori del matrimonio sia compatibile con i diritti della famiglia legittima e dall'esigenza di salvaguardare, in materia tanto delicata, i fondamentali diritti della persona, tutelati anch'essi dalla Costituzione, dai pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria».
A seguito di questa pronuncia fu approvata la legge 23 novembre 1971, n. 1047 (Proroga dei termini per la dichiarazione di paternità e modificazione dell'art. 274 del codice civile), contenente all'art. 2 una nuova disciplina del giudizio di ammissibilità dell'azione, la quale stabilì l'obbligo di motivazione del decreto e la sua reclamabilità alla corte d'appello, confermando peraltro la non pubblicità dell'inchiesta sommaria compiuta dal tribunale e l'obbligo di mantenerla segreta. Dal carattere contenzioso del procedimento la Corte di cassazione ha desunto la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 della Cost., avverso il decreto della corte d'appello.
Il contemperamento operato, con le sentenze in precedenza richiamate, del carattere sommario del procedimento con la salvaguardia del diritto di difesa, attraverso la previsione dell'obbligo di contraddittorio tra gli interessati, l'obbligo di motivazione del decreto sulla domanda di ammissibilità e il reclamo alla corte d'appello, nonché la riconosciuta ammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., finiscono per escludere quel carattere di segretezza posto a difesa del preteso padre.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha lasciato poi immutata la struttura del procedimento, limitandosi a sostituire le «specifiche circostanze» agli «indizi» di cui al testo originario dell'art. 274 cod. civ., quali elementi la cui sussistenza è richiesta ai fini del giudizio di ammissibilità di cui si tratta.
Questa Corte ha successivamente dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 274 cod. civ. nella parte in cui, se si tratta di minore infrasedicenne, non prevede che l'azione promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all'interesse del minore (sentenza n. 341 del 1990), ma ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'ammissibilità dell'azione, l'esistenza di elementi anche di tipo presuntivo idonei a far apparire l'azione verosimile, precisando che «il procedimento in esame è ispirato pertanto a due finalità concorrenti e non in contrasto fra loro, essendo posto a tutela non solo del convenuto contro il pericolo di azioni temerarie e ricattatorie, ma anche e soprattutto del minore, il cui interesse sta nell'affermazione di un rapporto di filiazione veridico, che non pregiudichi la formazione e lo sviluppo della propria personalità» (sentenza n. 216 del 1997).
A ciò bisogna poi aggiungere che la costante giurisprudenza della Corte di cassazione ha valutato le «specifiche circostanze» cui fa riferimento l'art. 274 cod. civ. alla stregua di criteri di verosimiglianza e non di certezza, ritenendo sufficiente che la dichiarazione della madre sia supportata da un fumus boni iuris (Cass., sentenze n. 151 del 1998, n. 2346 del 1994, n. 7742 del 1995), rinviando al giudizio di merito l'esame delle contestazioni sollevate dal convenuto e limitandosi a conoscere delle eccezioni di improponibilità dell'azione (per decadenza, giudicato, transazione) in via meramente delibativa al solo fine di emettere la decisione sull'ammissibilità dell'azione instauranda (Cass. n. 2979 del 1976). In tal modo la stessa Corte di cassazione ha fornito conferma alla opinione di quanti avevano definito il giudizio di ammissibilità di cui si tratta un "ramo secco" dell'ordinamento che limita il diritto dei figli all'accertamento della paternità senza più salvaguardare le esigenze del preteso genitore. In definitiva, detto giudizio può ormai considerarsi un inutile duplicato idoneo solo a favorire istanze dilatorie.
Ed, infatti, la descritta evoluzione della disciplina procedimentale del giudizio di ammissibilità ha totalmente vanificato la funzione in vista della quale tale giudizio era stato originariamente previsto dal legislatore, e cioè la protezione del convenuto da iniziative «temerarie e vessatorie» perseguita attraverso la sommarietà e la segretezza della cognizione, devoluta in questa fase all'organo giudicante; con la conseguenza che il giudice è abilitato dalla norma attualmente in vigore a dare alla sua cognizione l'estensione ritenuta più opportuna e pertanto tale da spaziare, come ha statuito la giurisprudenza di legittimità, dalla ammissione di accertamenti tecnici idonei a definire il giudizio di merito, senza che ciò incida sulla necessità della sua successiva proposizione, fino alla sufficienza delle sole affermazioni della parte ricorrente.
Peraltro, il meccanismo processuale di cui alla norma impugnata - in palese contraddizione con la sua funzione "preventiva"- si presta, come è stato esattamente rilevato nell'ordinanza di rimessione, ad incentivare, per la sua stessa struttura, strumentalizzazioni, oltre che da parte del convenuto, anche da parte dello stesso attore che, attraverso una accurata programmazione della produzione probatoria, è in grado di assicurarsi - non essendo il provvedimento di inammissibilità suscettibile di passare in giudicato - una reiterabilità, a tempo indeterminato, della istanza di riconoscimento, con la conseguenza che, proprio a fronte di iniziative effettivamente vessatorie, il convenuto potrebbe non esserne mai definitivamente al riparo.
L'intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 cod. civ. si risolva in un grave ostacolo all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; così come da tale manifesta irragionevolezza discende la violazione del precetto (art. 111, secondo comma, Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione Né può tacersi che l'evoluzione della tecnica consente ormai di pervenire alla decisione di merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente concentrati.
Da quanto precede deriva l'incostituzionalità dell'art. 274 cod. civ. per violazione degli articoli 3, secondo comma, 24 e 111 della Costituzione, senza che sia di ostacolo alla relativa pronuncia la limitazione del petitum, contenuta nella ordinanza di rimessione, nella quale si fa riferimento al solo giudizio di ammissibilità promosso da maggiorenni.
La definizione dei termini della questione, adottata dal rimettente sotto il vincolo che allo stesso si impone in funzione della sua rilevanza nel giudizio principale, non limita le valutazioni di questa Corte sul procedimento regolato dalla disposizione impugnata, ove affetta dai denunciati vizi nella sua complessiva e generale applicazione ad ogni ipotesi di delibazione di ammissibilità dell'azione.
Infatti, in presenza di una incostituzionalità che, come si è appena visto, coinvolge detto procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l'interesse del minore non fa venire meno l'incostituzionalità stessa, né giustifica la permanenza nell'ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L'esigenza, infatti, che l'azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all'interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all'art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell'accertamento della fondatezza dell'azione di merito”.

La sentenza per il chiaro contenuto si commenta da sè. I tempi, la sensibilità e l'evoluzione del sentire giuridico imponevano siffatta decisione che la corte ha ben interpretato e motivato.

Milano 02/09/2006

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.