30/09/2025
Nel rapporto di lavoro le parole “rinuncia” e “transazione” non sono libere come altrove. L’articolo 2113 del codice civile stabilisce una regola semplice: quando un accordo tocca diritti del lavoratore fissati da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (minimi retributivi, scatti, TFR, ferie e istituti analoghi), la rinuncia o la transazione è impugnabile e, di fatto, inefficace. Esiste però un’eccezione importante: se l’accordo è concluso in sede protetta, l’art. 2113 non si applica e l’intesa diventa stabile, fatta salva la possibilità di agire per i vizi della volontà (errore, dolo, violenza).
Per capire cosa sono i diritti “inderogabili” basta pensare ai mattoni minimi dell’assetto retributivo e normativo: non sono moneta negoziabile nel privato tra singolo e datore. La legge e il CCNL fissano una base che non può essere scambiata con un “saldo e stralcio” firmato in corridoio. Se un lavoratore sottoscrive una rinuncia su quelle voci fuori dalle sedi protette, può impugnarla con un atto scritto (basta anche una PEC) entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o, se l’atto è successivo alla cessazione, entro sei mesi dalla sua data. L’impugnazione non richiede formule solenni: conta che emerga chiara la volontà di rimettere in discussione l’accordo.
Quando invece la conciliazione avviene in sede protetta, il quadro cambia. Per “sedi protette” si intendono i contesti normativamente garantiti che assicurano neutralità e assistenza: davanti al giudice (anche nel tentativo di conciliazione), presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro nelle commissioni ex art. 410 c.p.c., oppure nei collegi/organismi previsti dagli artt. 412 e 412 quater c.p.c. In questi luoghi la legge presume che la parte debole sia messa in condizione di comprendere, negoziare e scegliere senza pressioni, e quindi l’accordo non è più attaccabile con lo strumento speciale dell’art. 2113. Attenzione però a un punto pratico: la sede aziendale non è una sede protetta. Firmare “in azienda”, anche alla presenza di un rappresentante sindacale chiamato per l’occasione, non garantisce la neutralità richiesta.
La ragione della norma è trasparente. Il diritto del lavoro prende atto di un’asimmetria di potere: chi lavora può accettare rinunce pur di mantenere il posto o incassare somme nell’immediato. L’art. 2113 serve a evitare scambi al ribasso sui minimi contrattuali e legali, ma non blocca la possibilità di chiudere in modo serio e definitivo le controversie: semplicemente chiede di farlo dentro un perimetro terzo e assistito. Il risultato è un equilibrio: fuori dalle sedi protette il lavoratore può ripensarci; dentro le sedi protette l’azienda ottiene stabilità e il lavoratore la garanzia che la scelta sia stata libera e consapevole.
Due precisazioni chiave aiutano a orientarsi. La prima: perché una “transazione” sia davvero tale deve esistere una controversia concreta (la famosa res dubia) e devono emergere reciproche concessioni. Le formule vaghe di “nulla a pretendere” che pretendono di coprire tutto, senza specificare quali diritti si stanno componendo e in che misura, sono guardate con sospetto e spesso non reggono, soprattutto se riferite a diritti inderogabili. La seconda: anche la conciliazione in sede protetta resta aggredibile con i rimedi generali del codice civile se la volontà del lavoratore è stata viziata; non è una zona franca, ma una corsia di stabilità ragionevole.
Esempio concreto. Se un addetto firma in azienda una rinuncia agli scatti maturati in busta paga in cambio di una somma una tantum, quell’atto resta impugnabile per sei mesi dopo la cessazione del rapporto di alvoro : la rinuncia riguarda diritti inderogabili ed è stata raccolta fuori da un contesto neutro. Se quella stessa intesa è raggiunta davanti all’Ispettorato del Lavoro, con l’assistenza sindacale e con un verbale che dettaglia le voci, gli importi e le reciproche concessioni, non opererà l’art. 2113; l’accordo regge, restando solo la tutela per vizi della volontà.
Per le imprese questo significa che le chiusure “fatte in casa” sono terreno instabile e fonte di contenzioso: meglio incanalare le definizioni in sede protetta, con testi chiari e specifici sulle voci trattate. Per i lavoratori, la bussola è altrettanto semplice: prima di firmare fuori dai canali protetti è opportuno fermarsi; se la firma è già avvenuta, il termine dei sei mesi e la forma scritta dell’impugnazione diventano decisivi.
In sintesi, l’art. 2113 non vieta le transazioni nel lavoro: le disciplina. Fuori dalle sedi protette, protegge i minimi inderogabili e concede una finestra per ripensarci; dentro le sedi protette, offre lo spazio sicuro in cui le parti possono davvero chiudere una lite con effetti stabili. È il modo con cui l’ordinamento tiene insieme libertà negoziale e tutela della parte debole, senza rinunciare alla certezza dei rapporti.