L’impresa familiare, disciplinata dall’articolo 230-bis del codice civile, è un istituto che riconosce tutela a chi presta in modo continuativo la propria attività nell’impresa del coniuge, di un parente o di un affine senza che vi sia un contratto tipico di lavoro. Non serve che la collaborazione sia esclusiva o prevalente: è sufficiente che non sia saltuaria o occasionale. In questi casi, la legge attribuisce al collaboratore il diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili dell’impresa e agli incrementi dell’azienda, compreso l’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto. La partecipazione riguarda anche le decisioni importanti, come l’impiego degli utili, le scelte straordinarie e la cessazione dell’attività, che vengono deliberate a maggioranza dai familiari che collaborano. L’istituto ha natura residuale: si applica quando non sia configurabile un rapporto tipico, come quello di lavoro subordinato o societario. Ciò significa che la mera esistenza di procure o deleghe di rappresentanza non sostituisce né esclude il lavoro continuativo prestato all’interno dell’impresa. I diritti del collaboratore non possono essere trasferiti a terzi, salvo consenso unanime e a favore di altri familiari, e devono essere liquidati in denaro al momento della cessazione della collaborazione o in caso di alienazione dell’azienda, con possibilità di pagamento rateale stabilito dal giudice. La legge garantisce inoltre la parità del lavoro femminile e riconosce al collaboratore un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda. L’impresa familiare, quindi, rappresenta un equilibrio tra la dimensione affettiva e quella economica della vita familiare, offrendo una cornice giuridica a prestazioni che altrimenti resterebbero prive di tutela.