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Quando il rifiuto di lavorare non è insubordinazione: sicurezza, art. 2087 c.c. e limiti del potere disciplinare.

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23/12/2025

(Nota a sentenza della Corte d’Appello di Milano, Sez. Lavoro, dicembre 2025)

La sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha confermato l’illegittimità del licenziamento intimato a una guardia particolare giurata offre un chiarimento netto su un punto spesso frainteso nella prassi aziendale: il rifiuto del lavoratore di eseguire una prestazione pericolosa non è, di per sé, insubordinazione, quando il datore di lavoro non abbia adempiuto all’obbligo di sicurezza.

Il caso è emblematico perché mette a confronto, senza mediazioni retoriche, due interessi contrapposti: da un lato l’esigenza organizzativa dell’impresa; dall’altro la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore. La Corte prende posizione in modo chiaro, ribadendo che la sicurezza non è negoziabile e che il potere disciplinare trova un limite invalicabile nell’art. 2087 c.c.

Il lavoratore, guardia giurata addetta a un servizio di vigilanza notturna, era incaricato di effettuare un “giro ispettivo” all’interno di una vasta proprietà privata: un parco con aree boschive, scarsamente illuminato, da percorrere quasi interamente a piedi e in solitaria. All’interno della proprietà erano presenti cani di grossa taglia lasciati liberi, già protagonisti in passato di episodi aggressivi nei confronti di altri operatori.

Il lavoratore non aveva rifiutato il servizio nel suo complesso, ma solo quella specifica parte del percorso che comportava l’ingresso nell’area interna del parco, ritenuta pericolosa. Per questo comportamento gli erano state dapprima irrogate sanzioni disciplinari conservative e, successivamente, intimato il licenziamento per giusta causa, qualificando la condotta come grave insubordinazione.

Il Tribunale di Como ha smontato l’impostazione datoriale partendo dai fatti, non dalle etichette disciplinari. Dall’istruttoria è emerso che: il rischio di aggressione da parte dei cani era concreto e noto; l’attività si svolgeva in condizioni oggettivamente critiche (notte, assenza di illuminazione, servizio in solitaria); le misure adottate dall’azienda erano puramente formali: rassicurazioni dei proprietari dei cani e possibilità di percorrere in auto solo i primi metri del vialetto.

Secondo il Tribunale, tali misure non erano idonee a prevenire il rischio, perché rimettevano la sicurezza del lavoratore alla condotta di terzi estranei all’organizzazione aziendale, sui quali il datore non aveva alcun potere di controllo. Da qui la conclusione: il rifiuto del lavoratore era legittimo ai sensi dell’art. 1460 c.c., quale reazione all’inadempimento datoriale dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.

La Corte d’Appello conferma integralmente questa impostazione e chiarisce un passaggio di grande rilievo sistematico. Anche ammettendo che il fatto storico sia avvenuto – il rifiuto di eseguire una parte della prestazione – ciò non basta a fondare un licenziamento disciplinare.

Richiamando la giurisprudenza costante della Cassazione, la Corte ribadisce che l’“insussistenza del fatto”, ai fini della tutela reintegratoria, comprende anche le ipotesi in cui il fatto sia materialmente accaduto ma sia privo di rilevanza disciplinare. E un rifiuto che: è parziale, è motivato, è proporzionato al rischio, è finalizzato alla tutela della salute, non può mai essere qualificato come insubordinazione.

La Corte è particolarmente severa nel giudizio sulle misure aziendali. L’impegno dei proprietari a tenere chiusi i cani non è prevenzione; la possibilità di controllare i primi metri del percorso in auto non elimina il rischio; il DVR, peraltro, non è stato neppure prodotto in giudizio. Non solo: anche dopo il licenziamento, un altro operatore è stato nuovamente aggredito, tanto che l’azienda ha poi reso facoltativo il giro interno. Una conferma ex post, ma eloquente, dell’inadeguatezza delle misure precedenti.

Nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, la Corte non ha esitazioni. Da un lato vi è la salute del lavoratore, bene primario di rilievo costituzionale; dall’altro, il rischio per l’azienda di un eventuale inadempimento contrattuale verso il cliente, peraltro limitato. In questo contesto, il rifiuto del lavoratore non solo è legittimo, ma non viola neppure il principio di buona fede.

Una volta esclusa la rilevanza disciplinare del fatto, il licenziamento non può che essere dichiarato illegittimo, con applicazione della tutela reintegratoria prevista dal d.lgs. n. 23/2015. Vengono così respinte anche le difese aziendali fondate sulla recidiva e sulla richiesta di una tutela meramente indennitaria.

La sentenza manda un messaggio che dovrebbe essere ovvio, ma che evidentemente non lo è: la sicurezza del lavoro non è una variabile organizzativa, né può essere scaricata su promesse di terzi o su misure di facciata. Quando il datore non mette il lavoratore in condizione di operare in sicurezza, il rifiuto di esporsi al pericolo non è un illecito disciplinare, ma un atto di autotutela pienamente legittimo.

Ed è bene ricordarlo: non ogni rifiuto è insubordinazione; talvolta è semplicemente diritto.

 

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