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ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE E LAVORO SUBORDINATO A CONFRONTO



Alla luce delle ultime sentenze della Suprema Corte di Cassazione, si coglie l’occasione per fornire alcune delucidazioni sull’istituto dell’associazione in partecipazione e sulle particolarità, non sempre così scontate ed evidenti, che lo differenziano dal rapporto di lavoro subordinato. Le riflessioni nascono dalla sentenza Cass. Civ. 18 aprile 2007 n. 9264/07 che sottolinea le difficoltà pratiche, rilevate anche dai giudici, nell’individuare la sussistenza dell’uno piuttosto che dell’altro istituto.
In breve, l’associazione in partecipazione (2549- 2554 c.c.) è il contratto con il quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa, come corrispettivo di un determinato apporto che può ben assumere la forma di una prestazione lavorativa. Tale fattispecie contrattuale viene classificata come contratto aleatorio in quanto l’alea, intesa quale partecipazione al rischio economico dell’impresa, è essenziale a tale tipologia di contratto.
Il lavoro subordinato (2094 c.c.) nasce da un contratto con il quale il prestatore di lavoro si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato sono pertanto la subordinazione, nel senso di eterodirezione o soggezione del lavoratore alle direttive ed impostazioni impartite dal datore di lavoro.
Di per sé la lettura della normativa è piuttosto chiara: se c’è subordinazione non c’è associazione in partecipazione. Non così semplice è tuttavia la sua applicazione pratica, come si evince dai molteplici casi dubbi dai contorni sfumati che si trasformano in inevitabile contenzioso, con ricerca da parte dei lavoratori del riconoscimento ed attribuzione delle maggiori garanzie che solo un contratto di lavoro subordinato può offrire. Spesso, infatti, il datore di lavoro utilizza in maniera fraudolenta il contratto di associazione in partecipazione, al fine di eludere gli istituti lavoristici, previdenziali e sindacali che un contratto di lavoro subordinato determina ed impone.
La giurisprudenza più volte è intervenuta in materia ed ha indicato una serie di principi di diritto che facilitano, o meglio che dovrebbero facilitare, l’individuazione della corretta fattispecie concreta. 
In genere la giurisprudenza ritiene che al fine di stabilire se lo svolgimento della prestazione lavorativa sia riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato o ad un contratto di associazione in partecipazione, è necessario compiere un’approfondita indagine, in quanto il rapporto di associazione in partecipazione implica una serie di obblighi. Tra questi rilevano l’obbligo del rendiconto periodico da parte dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio d’impresa; diversamente, nel lavoro subordinato l’elemento fondamentale è dato dal vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive ed istruzioni all’associato all’impresa (Cass. Civ. 4.04.2007, n. 8465). 
Il contratto di associazione in partecipazione attribuisce all’associato una partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto. Il sinallagma è costituito, quindi, dalla partecipazione agli utili –ovvero rischio di impresa- di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite a fronte di un apporto che, come detto, può consistere nella prestazione dell’attività lavorativa dell’associato. In tal caso l’associato che offre la sua attività lavorativa si inserisce nel contesto organizzativo aziendale e, essendo la gestione dell’impresa nella disponibilità dell’associante (come, infatti, vuole l’art. 2552 c.c, comma 1), si sottopone al potere direttivo di quest’ultimo. E’ normale che sorgano dubbi sulla esatta qualificazione della fattispecie contrattuale quando lo svolgimento della prestazione lavorativa da parte dell’associato presenti caratteristiche simili alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Se può essere difficile la valutazione della partecipazione al rischio economico, così come l’individuazione degli altri elementi appena detti, un aiuto, secondo la giurisprudenza potrebbe arrivare dal regolamento pattizio voluto dalle parti e concretamente posto in essere (sul punto si legga, Cass. Civ. 22.11.2006, n. 24781). Da tale regolamento può individuarsi la linea di demarcazione tra l’associazione in partecipazione ed il lavoro subordinato nella presenza, in seno al secondo, di un vincolo personale di maggiore intensità tra le parti rispetto a quello derivante dal generico potere dell’associante di impartire istruzioni all’associato (sul punto si veda, L. RUGGIERO, La Cassazione si pronuncia nuovamente sui criteri di distinzione fra associazione in partecipazione e lavoro subordinato, in Dir. Rel. Ind., 2005, 3, 769; in giurisprudenza nello stesso senso la recente Cass. Civ. 28.05.2007 n. 12357).
Con la sentenza del 18.04.2007 n. 9264 la Corte di Cassazione sembra allontanarsi dagli orientamenti precedenti e non essere così rigida nella valutazione dei criteri di differenziazione sopra enunciati. La Corte ha precisato che sussistono elementi che, sebbene siano propri della subordinazione, tuttavia questi non sono nemmeno estranei ad un contratto di associazione in partecipazione. A non nascondere ambiguità e perplessità sulle differenze tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato è la stessa Cassazione nel momento in cui afferma che “nella realtà fattuale la linea di demarcazione tra le due figure si presenta tutt’altro che certa”. Tale incertezza ha consentito comunque ai giudici di poter ampliare l’esame dell’istituto e muoversi tra le varie soluzioni interpretative che dottrina e giurisprudenza sino ad oggi hanno offerto, effettuando in ogni caso una scelta nel senso di un’interpretazione estensiva dell’art. 2549 c.c.

Sulla qualificazione giuridica del rapporto contrattuale e sulla partecipazione agli utili.
- Nella sentenza 9264/2007la Cassazione ha ricordato da subito che il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto (ossia la qualificazione formale) sebbene non sia decisivo, tuttavia non è nemmeno irrilevante. Anzi, quando le parti, pur volendo un rapporto di lavoro subordinato, hanno simulatamene dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo per eludere la disciplina legale ed inderogabile in materia, come quando l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nel caso in cui, dopo aver effettivamente voluto il contratto di lavoro autonomo le parti, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver cambiato intenzione e di essere passate ad un assetto di interessi corrispondenti alla subordinazione, il giudice di merito deve attribuire valore preponderante al comportamento tenuto dalle parti.
Ciò non significa, comunque, che la qualificazione giuridica effettuata e manifestata dalle parti al momento della stipulazione del contratto, pur non essendo decisiva, sia del tutto irrilevante. Quindi, continua la Cassazione, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, l’accertamento del giudice deve essere particolarmente rigoroso, in quanto anche un associato può ben essere assoggettato a direttive ed istruzioni, nonché ad un’attività di coordinamento.
Specificamente il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione consiste nel riconoscere utilità e rilevanza al nomen iuris attribuito dalle parti alla fattispecie contrattuale, soprattutto in tutte quelle ipotesi in cui i caratteri differenziali tra due o più figure negoziali non appaiono agevolmente tracciabili. Questo in quanto, quando la volontà negoziale dei contraenti è stata espressa in modo libero, alla luce della situazione in cui versavano le parti al momento della stipulazione e della formazione della loro volontà, nonché concretizzata e formalizzata in un documento, è necessario accertare in modo approfondito tutto quello che le parti hanno dichiarato nel documento e verificare se tali intenzioni si siano poi tradotte nella realtà.
La valutazione del documento negoziale è di sicuro tanto più determinante quanto più incerti e sottili appaiono i confini tra le due figure contrattuali astrattamente configurabili: il nomen iuris, in tale ipotesi, non può non assumere rilevanza decisoria. Anche da tale sentenza emerge che elementi significativi dell’associazione in partecipazione sono: a) assunzione da parte dell’associato del rischio economico e quindi di un’alea che rende incerto il rapporto tra attività lavorativa svolta e corrispettivo pattuito; b) un controllo sulla gestione dell’impresa –spettante per legge all’associante- da parte dell’associato; c) un potere di impartire direttive ed istruzioni all’associato. Tale ultimo requisito, secondo la sentenza che si sta esaminando, ha un minore incidenza in quanto tale potere può essere molto simile e confondibile rispetto a quello spettante al datore di lavoro. 
Elemento di novità è la presa di posizione della Cassazione relativamente alla questione concernente la partecipazione agli utili piuttosto che ai ricavi, al fine dell’esatta qualificazione del rapporto contrattuale. La Corte, infatti, stabilisce un principio di diritto ben preciso, ritenendo che per la partecipazione agli utili deve intendersi la “partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quella dei singoli affari, sicché non assume alcun rilievo il riferimento delle parti o ai ricavi per i singoli affari”; per le perdite, in un corrispettivo volto a prevedere una quota fissa di entità non compensativa della prestazione lavorativa, comunque non adeguata ai criteri di cui all’art. 36 Cost.
La sentenza sembra non condividere quindi l’orientamento di quella parte di giurisprudenza (Cass. Civ. 16.02.1989 n. 927) secondo cui il carattere aleatorio del contratto di associazione in partecipazione escluderebbe la possibilità di determinare il corrispettivo dell’associato con riferimento, piuttosto che agli utili, agli incassi o al fatturato, in quanto ciò garantirebbe la certezza di un corrispettivo minimo, indice della volontà delle parti di comporre i propri interessi in modo diverso dallo schema di cui all’art. 2549 c.c. La sentenza segue pertanto il diverso principio secondo cui tale pattuizione limiterebbe, senza però escludere completamente, l’alea dell’associato e sarebbe consentita dall’art. 2553 c.c. che, nello stabilire che “l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili” fa salvo il patto contrario.
Le peculiarità della sentenza 9264/2007 dimostrano che, pur essendo ormai assodati alcuni principi cardini dell’istituto di cui agli artt. 2549 e seguenti del c.c. esiste ancora molto da chiarire e precisare, soprattutto ricordando la funzione sociale che inerisce al contratto di lavoro subordinato e che invece manca del tutto all’istituto dell’associazione in partecipazione. 

Milano 27/06/2007.

 

 

 

 

 

 

  

 
 
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